Arancione

Una storia la voglio raccontare io.

Ad agosto scorso, sarà stato una decina di giorni dopo ferragosto, mi è accaduto un fatto banale, che tuttavia non riesco a rimuovere efficacemente dalla mia memoria. Sapete le cose che capitano a tutti e che a te non sono mai capitate? Si tratta di sciocchezze, il più delle volte, ma finisci per pensare che prima o poi dovranno succederti. Non sono eventi né fortunati né particolarmente infausti. Banalità, vi dico. Talmente banali che non riesco a farvi un esempio.

– Potresti raccontarci cosa ti è successo, che ne pensi?

Ecco, infatti. Dicevo, era estate. Estate piena, non una nuvola nel cielo spalancato, caldo da costringere ogni cosa a riposarsi immobile e impotente. Non un alito di vento, tutto fermo, tranne me dentro la mia Panda. Musica alta, io canto a squarciagola fradicio di sudore, le decine di gingilli e gli Arbre Magique sobbalzano ad ogni fosso – conoscete le nostre strade secondarie, e sapete quanto sia necessario scegliere di percorrerle, per evitare di rimanere intrappolati nel traffico dell’altissima stagione. La strada dal mare riporta verso il paese inerpicandosi fra le colline rocciose, stretta e scolorita. È una striscia che sventra netta la vegetazione ingiallita, percorrendola la si vede ondulare insicura sfocando l’orizzonte.

Avviene in mezzo a quell’aria liquida, sciolta dal sole, l’accadimento banale e tuttavia inconsciamente atteso da tempo. Sotto un cappello di paglia a falde larghissime, avvolta in un vestito rosa, con uno zaino ai suoi piedi (ai piedi sandali fini), una figura femminile si sbraccia per cercare di fermarmi.

Ecco, a me non era mai accaduto di dare un passaggio a qualcuno che non conoscessi; perché nessuno, sulle innumerevoli strade che avevo percorso fino ad allora, aveva mai deciso di fare autostop.

– Bel fatto, eh. Veramente sensazionale. Tutti almeno una volta nella vita abbiamo dato uno strappo a un autostoppista.

Ecco, mi riferivo a questi fatti, attesi e scontati.

Ma è ciò che seguì a dover essere raccontato. La ragazza, Grecia (Grecia con la S), era portoghese, era in viaggio da sola dal marzo precedente, e si era persa – e questa è stata la prima e l’unica cosa che ho potuto pensare vedendola sventolare le braccia dorate in mezzo alla strada – in mezzo a quella strada, dimenticata dai più. Viste le vostre facce schifosamente impazienti, no. Niente di che, capelli scuri, occhi scuri, fisicamente nella norma. E no, non ci ho fatto niente. Saremmo morti prima per il caldo, comunque.

La storia di Grecia è interessante, e la so quasi tutta. Ed è questo che cerco di raccontarvi da quasi mezz’ora, maledetta logorrea.

Diversamente da me, lei era preparata per gestire al meglio l’evento “autostop e passaggio da uno sconosciuto”. Mi disse di aver imparato un gioco, anni prima, da un suo ex, perfetto per conoscersi. Lo chiamava il gioco delle tre domande. Ha due sole regole. La prima: le uniche tre domande che ci si possono rivolgere sono quelle previste dal gioco; e l’altra: le domande sono da porre rigorosamente nell’ordine previsto dal gioco. Esiste poi una regola non ufficiale, una specie di consiglio affinché il gioco riesca: sii allo stesso tempo il più esaustivo e il più discreto possibile.

Mi propose di giocare e accettai.

– Inizio io, poi tu puoi farmi le stesse domande. Prima: cosa sei?

Non sapete quanto stupide suonino le risposte che vi balzerebbero in testa. Provate ora a dovervi rispondere: cosa siete?

Dopo aver scartato le prime quindici, venti possibili banalità, risposi. Cosa dissi io non è importante, però. Davvero. Vi racconto questa storia solo perché sappiate quanto ho saputo e immaginato, e quanto mi è stato negato, dalla risposta di Grecia.

Dunque, dopo aver risposto, le ho posto la stessa domanda. Tu, cosa sei?

Disse: – Sono la più piccola di una grande famiglia benestante. Sono una fuggitiva. Sono la sensazione che provo quando immergo i piedi nell’acqua fredda: sorpresa spaventosa. Sono il pittore che conclude il suo quadro più bello e non è soddisfatto. Sono stanca di questo caldo. Sono la lentezza dei passi di mia bisnonna, che vive sull’Oceano senza guardarlo più. Sono la nuvola che si fa da parte perché non piova a Luglio. Sono l’anello che indossa un uomo dall’altra parte del pianeta. Sono la tartaruga che depone le uova di notte. Sono un libro, quello che vuoi, di Hemingway. Sono le dita di Chet Baker. Sono le carezze date a un cane che non vedrò mai più. Sono il fiore che non colgo per rispetto del giardiniere. Sono il giardiniere che ha piantato quel fiore.

– Come diavolo fai a ricordarti questa risposta?

L’ha letta da un foglietto che poi mi ha regalato, e che ho letto centinaia di volte da allora. Credo di avere imparato le risposte a memoria, ma potrei aver dimenticato qualcosa.

– E perché diavolo aveva le risposte scritte su un foglio?

Per non dimenticare nulla, credo. Le ha ricopiate su un’agenda, dopo avermi regalato l’originale.

– E allora: perché diavolo ti ha regalato il foglio?

Perché gliel’ho chiesto, che domande. Posso andare avanti?

La seconda domanda del gioco è: cosa vuoi? Di nuovo, parola direttamente a Grecia.

– Voglio imparare a disegnare. Voglio che mi ascoltino. Voglio sapere come stanno i miei. Voglio imparare la sottile ma fondamentale differenza fra l’accontentarmi e il rinunciare ai desideri. Voglio il sole in fronte e il vento alle spalle. Voglio non volere più di quanto mi serva per vivere dignitosamente. Voglio capire precisamente cosa sia la dignità. Voglio un figlio. Voglio riassaggiare quella torta che ho mangiato a Saragozza. Voglio che mi capiscano, ma non del tutto, nessuno, mai. Voglio uno zaino più capiente. Voglio la forza di reggerlo sulle spalle.

– La terza domanda, poi il nostro gioco finisce. Dove vai?

Risposi: a casa – e mi sentii stanco. Lo ricordo bene.

Lei disse invece: – Vado precisamente, direttamente, ineluttabilmente, incontro a me stessa.

Per il resto del viaggio abbiamo parlato dei luoghi in cui era già stata, di dove sarebbe voluta andare, del tempo e della mancata manutenzione delle strade. Nel frattempo abbiamo raggiunto la città, lei è scesa alla stazione degli autobus, e non credo la incontrerò mai più.

Fatta eccezione per il foglio, basterebbe rileggerlo per tornare a quand’era estate e faceva caldissimo.

– Io voglio chiederti due cose.

Sentiamo.

– Ma qual era il senso di questa storia?

Non è che le storie devono avere un senso. È che raccontano, e questa storia era il racconto di un modo di raccontarsi. Stavamo parlando a turno, mi sono ricordato di questa roba e ve l’ho detta. E poi, mica si chiede il senso delle storie, se anche ci fosse.

– No, dici?

No.

– E cosa si fa?

Al massimo, se non capisci subito, rileggi o te la fai raccontare un’altra volta e cerchi di ascoltare meglio. E non è detto che, qualora ci fosse un senso, lo colga sempre. Non è che tutte le storie sono per tutti. Quella è la mia storia: perché l’ho vissuta, e perché l’ho raccontata. E a me piace.

– Era bella, è solo che non ho capito il perché. Ma ho capito cosa intendi, non la voglio capire per forza. Magari dopo mi presti quegli appunti che ti ha dato.

Sono in portoghese.

– Va be’, me li leggi tu.

L’altra domanda?

– Se non potevate farvi altre domande se non quelle previste dal gioco, come fai a sapere che si chiama Grecia?

Sai, prima di giocare ci siamo presentati.

– Ok: sono ubriaco, voglio dormire, vado a casa.