Fra la strada e loro due c’è, innanzitutto, un canneto spontaneo. Attorno crescono cardi e gigli. Il chiarore lunare ne sfiora i petali bianchi e quelli si stagliano sulla sabbia d’argento. Ai lati delle canne ci sono due passaggi, uno largo e uno stretto. È da lì che si passa per arrivare dove sono loro. Superate le canne, la vista si spalanca sulla spiaggia lunga e larga. È tanto ampia che forma un leggero pendio. Il mare non si scorge subito e per arrivarci bisogna camminare in salita per qualche passo.
Quest’anno è vuota. I manici degli ombrelloni spogli si stagliano radi, come spaventapasseri senza testa. Loro sono seduti l’uno accanto all’altro, poco sopra il segno umido della battigia. Hanno degli asciugamani come cuscini su cui stare seduti. Uno dei due parla tanto. L’altro annuisce e esala fumo, che si confonde con l’umidità marina. Ogni tanto ridono.
Non sai quanto ho aspettato questo momento. È un peccato che gli altri ci raggiungano solo domani.
Domani ci divertiremo.
Già. Sarà come ai vecchi tempi, no?
Quando quello dei due che parla tanto pone una domanda retorica, l’altro sorride senza mostrare i denti, sbuffando piano con il naso e sollevando le spalle.
Quanti pullman avremo preso? Per un periodo ho conservato i biglietti. Cazzo, un centinaio. Avremo fatto almeno dieci estati di seguito, sempre qua e senza mai avere i soldi per permetterci una casa in affitto.
Dài, un centinaio! (soffia fuori il fumo)
Va bè, per dire. Però che bellezza. Se penso a quanto tempo ci hanno tenuto rinchiusi in casa. A un certo punto (si ferma e borbotta una risata) a un certo punto, ti ricordi? (ride con il naso) a un certo punto ci hanno rotto le palle anche le videochiamate.
Già.
Quello dei due che parla poco smette di guardare l’amico e osserva l’orizzonte scuro e molle di fronte a sé.
Ci voleva, un pranzo come quello di domani. Ci voleva davvero. Sarà un giorno solo, ma sarà il nostro giorno. Di nuovo tutti insieme. Ci pensi?
(Sorride in quel modo cortese, quello delle domande retoriche che non meritano risposta).
Solo noi. E le ragazze e i bambini, certo. Ma sarà tutto come una volta. Credo che non poter uscire per così tanto mi abbia fatto un po’ ammattire, lo sai? Oddio, dico per dire. Però adesso, tipo: lo so, parlo solo io, mi rendo conto. Non riesco a smettere, e non posso farci nulla. Mi dico Ehi, basta. Forse vuole andare a casa, anziché stare qua ad ascoltarti ancora. Domani c’è il pranzo, avrete tutta la mattina e il pomeriggio e se vorrete anche la sera e la cena e il dopocena per parlare da ubriachi, e parlerà anche lui e anche gli altri lo faranno. Però, vedi? Non ce la faccio proprio. Ho addosso questa specie di euforia e non riesco a spiegarmela, non riesco a calmarla, non so da cosa dipenda, non so se sia comune a quelli come noi, se possa capitare, ecco, dopo le quarantene e lo stare in prigione nei propri appartamenti. Ma pure nelle proprie ville, secondo me mica cambia. Che dici? Scusami, cazzo. Appena vuoi andiamo via.
Il taciturno non risponde.
Che dici?
Riguardo a cosa?
Può capitare? È perché non parlavamo da tanto? Tu sei così silenzioso…
Penso che possa capitare, sì. (Batte una mano sulla spalla dell’amico).
Tu come ti senti?
Io? A me sembra di aver perso un sacco di tempo. Era giusto così, tornando indietro rifarei lo stesso, rispetterei le restrizioni e i divieti, non dico il contrario. Starei a casa. E lo so, non è vero che abbiamo perso tempo. Ma mi sono sentito, non so dire come dire… devo pensarci un attimo.
La luna piena è sopra di loro. Il taciturno, che pare aver trovato qualcosa da dire, non ha difficoltà a trovare l’accendino e le sigarette. Ne accende una e fa per riprendere, ma si interrompe per lasciar parlare l’altro.
Questa cosa del tempo perso è vera. Mentre la raccontavi ho capito cos’è che mi è successo. E ora mi sento triste e solo come un cazzo di bastardino randagio. Maledetto il mare, maledetta la luna e maledetta pure la notte che mi fa fare queste paranoie.
Cos’hai capito?
Che ho le aspettative sballate. A forza di ripensare a quello che avrei potuto fare se fossi stato fuori di casa, ho sviluppato una specie di nostalgia ipotetica. Una nostalgia del presente. Ho passato i giorni a desiderare me stesso intento a fare altro che non fosse impastare focacce, passare l’aspirapolvere e guardare film in streaming. Solo che la nostalgia è una grande bastarda, ecco cos’ho capito. Mette insieme quello che vuoi e quello di cui ti ricordi. E io ho fatto un casino e ho finito per desiderare i ricordi. Capisci?Come se finito tutto sarei tornato indietro ai miei vent’anni. Ai nostri vent’anni, capito? alle possibilità infinite aperte di fronte a noi. Ecco perché ti dicevo dei pullman e dei biglietti conservati. Finisce tutto e puff, abbiamo dieci anni di meno, così recuperiamo quello che non abbiamo fatto in tre mesi. Così, pensavo. Che stronzo. Ma ora ci sono, mi sono chiarito le idee: prenderò il pranzo di domani per quello che sarà, una rimpatriata per amici nostalgici. Ora è chiaro.
Siccome non c’è tanto da aggiungere e se un modo per concludere ci fosse non lo conoscerebbero, si alzano e tornano verso il canneto, evitando i manici degli ombrelloni e le spine dei cardi. La strada è illuminata da lampioni degli anni Ottanta armati di lampadine alogene gialle. La pineta attorno è un frastuono di cicale. Arrivati a casa del primo si salutano con un abbraccio rapido, e quello dei due che parla tanto prosegue. Fa una decina di passi, si ferma e torna indietro. L’amico sta per chiudere dietro di sé la porta d’ingresso.
Ehi! Ci hai poi pensato? Tu com’è che ti sei sentito?
Oh, sì.
Accosta la porta e torna al cancello basso.
Sai quando guardi un film e a un certo punto, per un motivo indipendente dalla tua volontà, devi mettere in pausa? Che ne so, una telefonata. E ti capita un fotogramma a caso, magari fuori fuoco e incomprensibile. Hai presente?
Certo.
Mi sono sentito così. A fissare il fotogramma. Sempre con la voglia di premere play e far ripartire il film.
È una bella immagine. Rende l’idea.
Renderà anche l’idea, ma è un’immagine di merda.
Hai sempre ragione tu. Buonanotte.
Giovanni Gusai