Fra le molte ramanzine dell’unica nonna che ho conosciuto, madre di mia madre, commerciante, innamorata della campagna, sprezzante delle maldicenze, dei soprusi e dei classismi, ne ricordo una in particolare. Ho pranzato da lei ogni giorno, per tutte le scuole elementari. La finestra della cucina si affacciava sulle pendici del colle di sant’Onofrio, adibite a vigna e pascolo. Una mattina arrivo da lei e, nell’attesa del pranzo, mi adagio sul davanzale a guardare fuori. Passa un ragazzino, poco più grande di me. Pantaloni di velluto marrone a coste, maglione grigio a collo alto, rattoppato qua e là, gilet imbottito blu scuro, scarponi neri. Certo di fare effetto su nonna, indico il ragazzino e la chiamo.
– Guarda, Ja’. Un pastorazzo!
Ja’, perché a Nuoro le nonne non esistono. Si chiamano Jajas.
Pastorazzo perché doveva essere dispregiativo: quasi a fare sentire l’odore di sporco, del pelo bagnato, della merda, degli animali, del sudore. Quello, nella scuola classista e tronfia che frequentavo, era il male assoluto. La puzza. Che bambini possono mai essere, i luridi figli dei pastori?
Jaja era una donna buona, innamorata dei nipoti. Portava il mio stesso nome e credo provasse per me un amore particolare. Non c’era traccia di perdono nei suoi occhi scuri, quando mi ha intimato di non osare mai più accostare il termine “pastore” a un insulto. Mai più nella vita, intendeva.
Quelli si alzano prima che sorga il sole, si spaccano la schiena per mungere, stare con gli animali, controllare che non glieli rubino. Stanno lontani da casa tutto il giorno e campano una famiglia senza neanche vederla. E tu li insulti pure? Come ti permetti?
Mi vergogno ancora.
Ero un bambino e imparavo la cattiveria degli adulti con leggerezza, senza filtri e senza comprenderla. Non avevo i mezzi per immaginare cosa stessi infangando o deridendo. Non potevo andare oltre le parole, non mi ponevo le domande, non sapevo spiegare il motivo delle mie azioni. Soprattutto quando non ce n’era.
Sono sempre stato un bambino mansueto e ubbidiente. Ho rispettato la volontà di jaja, ed è cresciuto in me un rispetto quasi reverenziale nei confronti dei pastori, le divinità campestri che fondano la mitologia contemporanea della mia terra.
Anche per questo, oggi so da che parte stare. Da che parte tutti dovremmo stare.
I bidoni rovesciati e il latte che inonda le piazze, gli assalti ai camion frigo, i blocchi stradali. È la dignità che urla. La fierezza altera di chi rende possibile ogni narrazione e immaginario sulla Sardegna, e ci sputa in faccia un dolore da condividere, necessariamente e senza riserve.
Non ci possiamo permettere di offrire sebadas né pardulas né filindeu né cracu né agnello arrosto, né frue né merca né pane fratau né niente.
Non possiamo goderci la contemplazione di nessun pascolo, nessun gregge docile che bruca.
Non possiamo fare i post su instagram quando le pecore intasano la nostra carreggiata, per strappare un sorriso e sentirci, in fondo, stravaganti e bizzarri in un modo così alternativo e un po’ country-chic da fare invidia a chi vive in città.
Non possiamo permetterci le pasquette in agriturismo, le feste patronali, la cucina genuina, la campagna incontaminata, la bellezza.
Non possiamo neppure dirci sardi sulle spalle di chi si ammazza di lavoro e disperazione ogni giorno, dall’alba al tramonto senza pausa.
Quella roba è nostra perché c’è qualcuno che la rende possibile, e da anni è relegato a mera comparsa, bistrattata e umiliata.
Chi non si schiera è dalla parte dell’ingiustizia, della mancanza di memoria, complice di uno schiavismo culturale e economico intollerabile.
Dai bidoni, in ogni paese di Sardegna, sgorgano la rabbia, la fatica, le lacrime e il sangue. I suoni della latta sull’asfalto sono la chiamata all’indignazione, il risveglio dall’ipocrisia, l’occasione di riscatto. Lo sdegno per il latte sprecato è ipocrita finché non ci indigniamo per gli abusi che lasciamo perpetrare.
Solo nei cuori orgogliosi germogliano le rivoluzioni.
E le rivoluzioni non si discutono: si compiono o si subiscono.
Io so da che parte stare.
Giovanni Gusai