Capidanne

Settembre è un nome sbagliato. September, il settimo mese del calendario romano arcaico. Ma settembre ormai è il nono. In sardo si dice Capidanne, perché da qui ricomincia il ciclo stagionale delle campagne.
Non so se sia un nome giusto. Non sono sicuro sia capace di contenere la nostalgia dell’estate appena trascorsa, il ritorno delle sere buie, la fatica preventiva del ritorno a scuola. Però sono nato il 3 di Capidanne, proprio all’inizio. E quest’anno cade di lunedì, quindi per me è un capodanno vero, il principio di qualcosa.

Ho degli auguri da farmi.

Sono arrivato ai trentuno sbandando e sciabordando, impiegando il mio tempo in lavori più o meno gratificanti e più o meno coerenti con l’idea che da sempre coltivo di me stesso. Quindi sono stato grafico, consulente filosofico, progettista culturale, copywriter, web designer, senza essere mai realmente nessuno di questi mestieri. C’era una speranza, prima dell’università. Era lontana e flebile come la luce di un faro immerso nella nebbia di un oceano in burrasca. Sono salito a bordo consapevole della lontananza, e della forza violenta delle onde. C’era pure il rischio che il guardiano del faro morisse e la luce si spegnesse e io mi perdessi e non ci arrivassi mai. Sapevo che si trattava di un faro senza porto e senza approdo. La speranza era arrivarci, poter fare lo scrittore.

Negli ultimi mesi mi sono dovuto arrampicare sull’albero maestro, perché le onde picchiavano troppo forte ed ero a un passo dal desistere. Ora vedo dove sto andando, comincia un nuovo anno così. Conduco la carcassa di una nave vecchia di trent’anni verso il faro. Con fatica e precisione. Scrivo, leggo, osservo, prendo appunti, impiego il mio tempo nella costruzione di mondi.

So di non essere l’unico ad aver subito smottamenti, spinte, nubifragi e tempeste. Ci sono mucchi di coetanei naufragati in esistenze che odiano o subiscono o sopportano, quasi mai per scelta. E ci sono talentuosi capitani di nave ben più avanti di me nella rotta che da sempre andavano cercando. Auguro a me stesso ciò che spero per chiunque viva la mia condizione. Ai creativi soprattutto, a chi deve cercare un modo per spiegare che il suo è un lavoro vero.

Ci auguro di non fare più passi indietro, di non cedere di un metro, andare solo avanti, ognuno sulla propria rotta. Non c’è altro modo di essere coerenti.

Ci auguro di non doverci accontentare, di preferire gli schiaffi del mare e le sferzate del maestrale alla calma delle bonacce lontane dal faro.

Ci auguro di guardare lontano e imparare ad attendere.

Di resistere, di essere coraggiosi e di restare concentrati.

C’è un mare più profondo e più scuro, oltre la luce. È un viaggio senza fine. Bisogna abituarsi ai marosi e abitarli. Non c’è riposo, non c’è tregua. E fuori ci sono le sirene che cantano.

Tappi di cera, mani strette sul timone, vele spiegate.

La felicità è oltre i muri d’acqua.