Scritto per un concorso, il cui tema era “I ricordi sono come l’acqua del mare”. Non ho vinto, ma ho in mente una nuova forma per il racconto. Intanto leggetelo così.
Agosto, martedì pomeriggio, strade vuote, sole. La città si gode la pausa del dopo pranzo. Fra tapparelle abbassate, negozi chiusi e bar deserti, lungo la via principale, procede lenta un’automobile rossa, ammaccata e sbiadita. I sedili posteriori sono occupati da decine di scatole di cartone di varia foggia e misura, ognuna stretta da un giro di carta gommata. L’abitacolo è completamente ingombro. Guida un uomo anziano, guance cascanti, bocca morbida e neanche un pelo di barba. Ha occhi acquosi dietro le lenti spesse degli occhiali – montatura in corno. Stringe fra le dita lunghe e avvizzite il volante sottile. Segnala la svolta a sinistra e si immette nella strada che conduce al piazzale di una chiesa.
Sul sagrato abiti scuri e occhiali da sole, attorno a un’elegante auto blu notte.
L’automobile rossa e le sue scatole trovano parcheggio poco lontano. L’autista non scende. Abbassa il finestrino e attende che cominci la funzione. Poi recupera dal sedile accanto al suo una macchina fotografica istantanea, modello Polaroid. Attraversa lo spiazzo, varca il portone centrale e prende posto nell’ultima bancata, da solo.
Al momento delle condoglianze si mette in fila e attende il suo turno. Giunto ai piedi dell’altare, anziché stringere la mano ai parenti del defunto, si ferma di fronte al feretro. Piega le ginocchia, scosta gli occhiali per mettere a fuoco e scatta una foto. Il rumore meccanico della stampa spezza il mormorio del cordoglio. Solo il vecchio non ci fa caso. Estrae la pellicola e la ripone nella penombra sicura della tasca interna della giacca. Torna a bordo dell’auto rossa, mette in moto e parte. Non segue il corteo funebre. Imbocca la litoranea e si dirige lentamente verso il molo delle barche a vela.
Pare non ci sia nessuno. Il signor Cincotti, così si chiama l’anziano conducente, spegne il motore. Tira fuori la foto e la osserva. Dalla stessa tasca prende un pennarello nero, e sulla banda bianca della polaroid scrive una data.
Diciassette agosto millenovecentonovantanove.
Prende una scatola delle sue, strappa la carta gommata che la tiene chiusa, solleva il coperchio il tanto che basti a infilarci dentro la foto appena sviluppata, e richiude. Poi comincia a scaricare. Ci sono decine e decine di scatole, cartone leggero. Per la maggior parte scatole di scarpe. Dopo aver svuotato l’abitacolo Cincotti apre il cofano – colmo anch’esso di pacchi e pacchetti cartonati. È sudato, fa una pausa prima di ricominciare. In poco tempo l’auto è vuota, e Cincotti circondato di cartone. Manca una sola confezione, è incastrata in fondo. Il vecchio si china e scompare nel cofano, lotta per liberare la scatola, sforza, tira, sballotta, tira più forte, più forte: eccola. L’ultimo strattone è quello decisivo. Però il signor Cincotti ha un dito graffiato in profondità. Uno spuntone metallico sul fondo della carrozzeria. Impila l’ultima scatola sopra le altre già depositate sul molo e stringe la ferita nel suo fazzoletto da tasca. Cammina a vuoto attorno all’auto, guardando il cielo, poi le scarpe, poi le mani, poi il mare, e il molo, le barche, un ragazzino silenzioso che pesca. Ha un rettangolo di sughero fra le mani, al quale è fissata una lenza, che finisce dritta dentro l’acqua.
Dall’auto al bordo del molo ci sono trenta metri. Cincotti, come in processione, fa avanti e indietro dalle scatole al limitare di pietra, dal limitare di pietra alle scatole. Una per volta, senza sforzi e senza pause, le trasporta a ridosso del mare. Si ferma solo ogni tanto, per stringere l’indice ferito nel fazzoletto ormai imbrattato di sangue. Erge un tempio di carta, le pile di cartone gli arrivano all’altezza dei fianchi, e lui sembra un sacerdote in procinto di celebrare un rito solenne e sconosciuto. E comincia. Con la punta dei piedi sul bordo del molo, raccoglie le scatole una per una e le lascia cadere in acqua. Le tiene sui lati corti, sospese sul mare; allarga le mani, cadono; la superficie d’acqua si rompe, tonfa, scroscia, schiuma e schizza; Cincotti ha gli occhiali velati di bianco, per la salsedine di ogni goccia arrivata sulle lenti.
Si sporge un poco, il tanto di ammirare l’ultima discesa dell’ultima scatola. Quando le bolle smettono di venire a galla, si allontana. Stringe la ferita. Inserisce la chiave dell’auto nella serratura, apre lo sportello, si siede. Attorno è cielo azzurro su mare blu profondo, aria iodata e bollente, profumo di cisto. C’è una macchina rossa scassata, ora vuota, su cemento grigio macchiato. Dentro l’automobile, un uomo solo. Piange piano, non si oppone e non si sforza.
«Ehi! Qua c’è un casino!»
C’è anche il ragazzino. Si è spostato dalla sua postazione. Ora è nel punto preciso in cui il rito dell’abbandono delle scatole è stato compiuto. Indica il mare ai suoi piedi.
Il mare è coperto di quadrati colorati o bianchi, a seconda di come le foto siano risalite in superficie. Una scatola si è probabilmente sfaldata sul fondo, o la carta gommata ha ceduto, o chissà cos’altro: ora, in qualunque modo sia successo, centinaia di polaroid affollano il porticciolo. Luca, così si chiama il ragazzino, guarda le immagini affascinato. In quasi tutte si vedono dettagli del volto o del corpo di una donna giovane, con addosso vestiti fuori moda. In altre si distingue solo la sagoma nera di un corpo femminile contro la luce del tramonto, o su un paesaggio montano, o in campagne fiorite. Luca sta lì fermo, e intanto lo raggiunge Cincotti. Stanno fermi senza dire niente. Una foto, mossa dalle onde lievi, si avvicina. Luca si accovaccia, poi si distende sul cemento con la testa oltre il molo, tende un braccio e con la punta delle dita riesce a recuperarla. La scuote e la tiene tra le mani senza rialzarsi, le braccia tese di fronte al volto. C’è la solita donna, giovane, con un asciugamano umido stretto sui capelli, guarda in camera e ride. Sembra felice.
«Ora come facciamo a pulire?» Inclina la testa e fissa Cincotti, che non risponde.
«Era sua moglie?» Gira la foto nella direzione dello sguardo del vecchio.
«Una volta, sì.»
Luca osserva di nuovo il volto sereno del ritratto: «Vuole tenerla?»
«No, non voglio tenere nulla.» dice, però prende la foto dalle mani di Luca, inginocchiandosi. Con la mano sana fa forza sulla pietra del molo, e tiene la polaroid fra pollice e indice dell’altra mano. Adagia la carta sul pelo dell’acqua. Spinge con leggerissima forza e la fotografia è immersa, in mare, insieme alle altre centinaia. E sott’acqua, in mare, inondata di acqua salata, è anche la ferita recente sull’indice.
È un attimo. Il brivido del sale. Non ha suoni per esprimerlo, né parole né fremiti né mugugni. Fa un male inaspettato e lancinante. Cincotti strappa la ferita al mare, estrae fulmineo la mano e la stringe nel fazzoletto come per asciugarla. Si rimette su a fatica, sente addosso il peso degli occhi di Luca. Si sforza di non volgersi nella direzione del ragazzino e contempla invece il disordine delle sue polaroid. Capisce così, in piedi di fronte a un rito andato male, con un’indice indolenzito e gli occhi lucidi, che i ricordi sono come l’acqua del mare. Credi che non li rivedrai mai più, invece trovano sempre il modo di tornare. Come le onde del mare, che vanno e vengono senza fatica e senza pausa. E credi siano indolori. Invece bruciano, sulle ferite aperte, come acqua salata.
Luca ha spostato la sua attenzione sulle macchie delle mani di Cincotti, e sulle rughe e le unghie curate.
«Posso chiederti di lasciarle andare?» Cincotti cerca lo sguardo di Luca. Il ragazzino trova due occhi velati dietro le lenti degli occhiali di corno. «Lascia che il mare le porti via, per favore.» Luca acconsente senza parlare. Cincotti torna in macchina, mette subito in moto e riparte in direzione della città.
Il ragazzino sta fermo sul bordo del molo, seduto con le gambe incrociate, finché il peso dell’acqua, inesorabile, corrompe i colori, gonfia la carta, la appesantisce, e la trascina sul fondo. Poi si alza, recupera il suo bolentino e va via. È quasi sera.