Come la scia di un battello a vapore sul mare scuro, affaticato e costante, scivola lo sguardo vacuo del signor V. dal soffitto al solaio del suo studio buio.
Ha i piedi pallidi e freddi dentro un paio di pantofole in pile dal fondo consumato, le mani macchiate di vecchiaia incrociate sullo stomaco, la testa calva, ossuta, appoggiata alla poltrona in velluto. Si sforza di stare fermo, e se avete mai provato sapete cosa significhi, quanto si amplifichi la percezione del proprio corpo, quanta vita ci sia in ogni singolo millimetro di carne, organi, muscoli e pelle. Ascolta il battito del suo cuore, se prestare attenzione al rimbombo sul petto sia da considerarsi una forma di ascolto, e teme quel meccanismo biologico perfetto possa interrompersi di colpo. Abbandona quel pensiero e smette, rotea gli occhi verso la grande pendola sul fondo della stanza, cerca di sincronizzare il proprio respiro con le lancette. Tic, tac. Tic, tac. Tic, tac. Non serve a niente, anche se il medico continua a consigliarglielo.
Inspira profondamente, dilatando le narici e sollevando le spalle. Le costole fanno male, mica come ottant’anni fa: campione provinciale dei 100 metri ostacoli. E fidanzato con la ragazza più bella della scuola, Evelina. Altro che ora, pronto a pisciarmi addosso e con la forza di un cardellino, l’anima zoppa e la testa piena di ricordi, pensa.
Tic, tac. Tic, tac. Tic, tac. La notte è piena di quel ritmo soltanto, e dello sbuffare del signor V.
Ora stringe i braccioli della poltrona con le mani lunghe e sottili, trema sulle gambe mentre si tira su, aggiusta i piedi dentro le pantofole. Non stacca la mano sinistra dalla poltrona, allunga la destra fino al tavolo sul quale è poggiato il bastone. Lo afferra e si fa forza per zoppicare fino all’alta vetrata che dà sulla terrazza.
Il respiro fa nuvole nell’aria gelida dello studio, la pendola scocca l’una e il piccolo cuore del signor V. fa un salto. Cazzo, vedrai che non riesco neanche a morire da seduto, borbotta. Si affaccia alla finestra stringendosi nella vestaglia, saldamente ancorato al bastone. È tutto bianco, nebbia rapida che affoga il paese e lattea luce di luna che confonde le ombre. Una gelida umidità imperla le mattonelle della terrazza, come ai corpi umani i sudori del panico. In un angolo poco distante dalla finestra, un piccione è rannicchiato su se stesso e dorme.
Guarda il bastardo. Li campiamo noi a forza di avanzi, ci cagano le lenzuola stese e le macchine appena lavate, provi a colpirli e svolazzano via il tanto che basta per non essere sfiorati, a dirti che tanto tu non puoi farci nulla. Loro ci sono e basta, conviene che ci conviva – pensa. Bè, stanotte ci sono anche io, specie di schifoso sacco di pulci.
Dà un colpo secco al vetro, spezzando il silenzio del buio con un fragore inaspettato. Il piccione strabuzza gli occhi e fa come per volare. Poi affonda la testa fra le ali e riprende a dormire.
Non ti spavento neanche, vero? E hai ragione, bastardo di un uccello. Io sono vecchio, innocuo e invidioso. Da giovane non dormivo mai, mi sembrava di perder tempo. Dall’alba al tramonto a girare, saltare, vedere, scoprire, fare. E avevo solo due gambe per correre. Immagina cos’avrei fatto con le tue ali, e tu te le sprechi a saltellare, per ingozzarti con le briciole dei nostri panini, anziché conquistare il cielo – pensa forte il signor V.
Poi si volta, si fa accompagnare fino alla poltrona sfondata dal suo fidato bastone, ritrova la posizione che aveva abbandonato poco prima, si sforza di stare fermo, ascolta l’orologio, guarda fuori. Tic, tac. Tic, tac. Tic, tac. Fuori una corrente di nebbia confonde il paesaggio, tutti dormono. Tutti, anche i giovani.
Sarà che non dormivo mai, pensa, e magari ho dimenticato come si fa. Però niente, ora che vorrei non riesco più. Merda.
Giovanni Gusai