(segue)
Chiara è seduta compostamente su una sedia, nella grande aula gremita di gente. Ha addosso gli sguardi di quattro professori annoiati e noiosi, rigidi dentro le loro camicie. Fa il massimo sforzo per utilizzare le parole appropriate, le ascolta dentro la sua testa prima di dirle a voce alta: poi le sgrana come perle di una collana, con eleganza. Si affida a lunghi periodi sapientemente corredati di congiuntivi impeccabili e sinonimi pregiati, gesticola poco, sotto la cattedra. Ha imparato a non curarsi della sufficienza con la quale i docenti ricambiano il suo sguardo concentrato e intelligente. Parla come se fosse su una strada panoramica molto lunga, dalla quale si possa godere di un panorama mozzafiato: con calma, e come se provasse ammirazione per i concetti che espone con lucidità. Le viene chiesto di fermarsi e le viene rivolta un’ultima domanda.
Chiara dilata il suo tempo mentale e vola sui fogli di appunti che costellano la sua memoria, trova la risposta e cerca il modo migliore per esporla.
– Basta così. Bravissima, signorina. Trenta.
“E un altro è andato. Altri due e la tesi, magari riesco per Novembre. Lo dico sempre, io, che il sole mi porta fortuna. E adesso casa, domani festa, dopodomani famiglia.” Pensa questo, mentre si allontana dalla facoltà e si dirige verso il suo appartamento, rovistando fra gli infiniti fogli dentro la sua borsa per trovare gli auricolari. Cammina, e ad ogni passo si sente più leggera. Arriva fino al portone, stanca e sollevata. Inserisce la chiave nella toppa e si ferma, prima di girarla.
– Sara!
Sara è in piedi al centro della sala d’attesa dell’ospedale. Cammina nervosamente avanti e indietro di fronte a Filippo, che le regge la borsa, seduto su una sedia. Ogni porta che si apre facendo rumore interrompe il ritmo nevrotico di Sara, costringendola a fermarsi e attirando la sua attenzione. Sua madre e suo padre sono dentro una piccola stanza con le pareti ricoperte di diplomi di specializzazioni, attestati e riconoscimenti. Sai com’è aspettare il responso di un medico: hai paura di sperare per non rimanere deluso, eppure non riesci a smettere di crederci. Sara prende la borsa e va verso i distributori automatici, chiede a Filippo di restare ad aspettare un qualsiasi segno, ed eventualmente di telefonarle subito. Inserisce le monete, digita il codice corrispondente a uno snack al cioccolato, ritira il resto, estrae lo snack. Scarta la confezione e si poggia con la schiena contro il muro. Mastica lentamente, ha gli occhi lucidi di chi teme di star aspettando invano.
Il suo cellulare vibra dentro la tasca dei jeans.
Butta freneticamente il cioccolato dentro un cestino, strofina le mani fra loro per pulirle e prende il telefonino: Chiara.
Non era la chiamata che stava aspettando, ma è un ottimo modo per allentare la tensione. Scopre del trenta, si complimenta, è sinceramente contenta per lei, si sfoga, fa scappare una lacrima, parla e torna verso la sala d’attesa. Filippo non c’è, la porta della stanza in cui si trovano i suoi genitori è socchiusa. Sara interrompe la telefonata senza dare spiegazioni a Chiara, che rimane spaventata e confusa, al tavolo della cucina di casa loro, a rosicchiarsi le unghie.
Sara corre fino alla porta socchiusa, bussa timidamente poi la spalanca. Cerca con lo sguardo sua madre, o suo padre, o Filippo. C’è soltanto il medico, che guarda fuori dalla finestra e ruota il collo per sincerarsi di chi abbia varcato la soglia del suo studio.
– Lei dev’essere la figlia, mi sbaglio? Hanno cercato di chiamarla.
– Dov’è? Come sta?
– Sta bene. Sarà necessario un altro controllo fra sei mesi, ma per ora posso azzardarmi a dirle che sua madre è guarita. E questa è una bellissima notizia, si tolga quel broncio.
Non sai mai se sperare del tutto, perché hai paura di rimanere delusa: – C’è anche una brutta notizia?
– Oh, niente di che. Suo padre al sentire della guarigione della moglie si è letteralmente lanciato addosso a me per abbracciarmi, ha cominciato a saltare per la stanza ed è inciampato.
– Non si è fatto male, vero? Lui è un po’ così, la felicità lo sconvolge.
– Una leggera contusione, ma non pareva essersene neppure accorto. Mi è sembrato davvero felice, ha ragione.
Sorride serenamente, come se gli mancasse la genuinità dell’esternazione di un sentimento.
– Credo che la stiano aspettando ai distributori automatici nell’atrio.
– Ora corro. Grazie, dottore. Grazie davvero. Oggi è una bellissima giornata.
– Immagino che non si riferisca al clima.
Le stringe la mano sorridendole compostamente e la saluta.
Sara corre forsennatamente per i corridoi dell’ospedale, facendosi strada fra barelle e sedie a rotelle, il suo telefono vibra ma lei non se ne accorge, continua a correre, come non correva da anni. Svolta un angolo e da lontano vede sua madre accarezzare la testa al marito, e Filippo che regge delle cartelle cliniche: ha il telefono all’orecchio. Si ferma, il fiatone le fa muovere le spalle. “Questa sensazione mi basterà per tantissimo tempo”, pensa.
Finisce con la morbidezza del corpo di sua madre addosso, le mani forti di suo padre sulle spalle, Filippo imbarazzato. Filippo che non può fare a meno di sentirsi di troppo, eppure felice anche lui.
(continua)