Verde

Un uomo e una donna giacciono accanto, nudi, sotto un lenzuolo, al centro di una radura. I loro respiri si confondono, le loro labbra si sfiorano. Attorno la foresta si prepara per affrontare una nuova giornata, è un brulicare di fruscii e cinguettii.

Chiamiamolo Lochan – parla la donna, e bacia le palpebre di suo marito. Lui accenna un sorriso malinconico e annuisce. Dilata le narici e aspira l’essenza degli alberi, l’umidità del lago, il balsamo dei capelli della donna. Fa scorrere le sue dita lungo la schiena di sua moglie, lei ha un brivido.

È un bel nome, speriamo gli porti fortuna. Sempre che sia un maschio. E se fosse femmina?

No, sarà un maschio, vedrai.

Venticinque anni dopo, Lochan è un ragazzo muscoloso, con i capelli scuri e gli occhi d’ambra. Si è appena laureato con il massimo dei voti in fisica, e in città ha molte amicizie fra le persone importanti, presto lavorerà. Nel villaggio in cui è nato, spesso cammina scalzo e con la testa fra le nuvole, trascorre molto tempo a parlare con suo padre e sua madre, cura un giardino. È figlio unico, ha una ragazza nuova alla settimana e amici importanti.

Gli capita spesso di addormentarsi quasi all’alba, ha un debole per le feste. Questo comporta risvegli complicati e ingestibili. Come oggi.

Lochan, ricordi cos’hai promesso a tuo padre quindici anni fa?

Ti prego, lasciami dormire un’altra ora, non riuscirei a stare in piedi.

È la quarta volta che ti chiamo, e ho iniziato un’ora e mezza fa. Non far dispiacere tuo padre, alzati.

Passa un altro quarto d’ora, e nel soggiorno al pianterreno di Lochan nemmeno l’ombra. Suo padre, seduto da due ore sulla poltrona, si alza e fa per uscire.

Bè, mi hai fatto alzare e neppure mi aspetti? Te ne vai al lago da solo, il giorno del tuo compleanno? Lo dice e già ride per la risposta burbera che sta per ricevere.

Stavo per andarmene. Tu e le tue feste! Ogni anno la stessa storia! Se non puoi mantenere gli impegni che prendi, è bene che non ne prenda affatto, non lo sai?

Buon compleanno, padre mio! Sei sempre lo stesso, la vecchiaia non ti ha scalfito affatto. Vieni, fatti abbracciare. Scusami, è davvero tardi. Andiamo.

La promessa era stata fatta in tempi non sospetti, quando Lochan era ancora un bambino e non si vedeva ubriaco fradicio, unico indiano a conoscere l’inglese nel suo paesino sperduto nella giungla, avvinghiato a due turiste di Londra seminude, a parlare di tequila alle tre del mattino.
No, aveva quattro anni o poco più, ascoltava le storie che gli raccontava sua madre e credeva di poter possedere una tigre, da grande. Ogni sera una storia nuova, ogni notte un sogno nuovo, ogni mattina una corsa nuova. Arrivò la sera in cui chiese al padre di leggergli lui una storia, la mamma ne aveva già lette tante. E il padre spiegò perché non gli avrebbe mai potuto leggere una storia. Lochan si rattristò per un attimo, poi teatralmente mise una mano sulla spalla del padre e gli promise:

Io non sono un granché a leggere le storie, ma ne posso inventare. Ti piacerebbe se te le raccontassi? Facciamo una all’anno però, sono pur sempre un bambino. Puoi scegliere il giorno e il luogo.

Certo che mi piacerebbe, figlio mio. Una all’anno, il giorno del mio compleanno. Nella foresta, dove c’è il lago.

Ma io non posso andare nella foresta, non so dove sia questo lago.

Ti ci porto io, ovvio.

E come farai?

Io so dov’è.

Anche quest’anno, quindi, Lochan e suo padre camminano accanto lungo il sentiero della foresta. Lochan racconta della festa della sera prima, si lamenta del suo mal di testa. Suo padre lo rimprovera senza vigore, lo prende in giro e gli chiede del giardino e degli studi. Il giovane parla delle nuove piante che ha innestato, poi ancora della festa, poi dei libri che sta leggendo. Arrivano al lago e si fermano.

Ci siamo, eh?

Eccoci qua. Ti serve una mano per sederti?

Non sto morendo, Lochan. E non sei simpatico, so bene come sedermi.

Ho qualcosa da dirti, padre, e mi vergogno per non avertelo detto prima. Oggi non ho una storia da raccontarti. Non l’ho preparata.

Dovevo immaginarlo, sapevo che questo giorno sarebbe arrivato. Me l’aspettavo da un paio d’anni, chissà che stupidaggine ti sembra, adesso che sei un uomo.

Aspetta, aspetta. Non l’ho preparata per un motivo. Non me ne sono dimenticato, non mi sto pentendo di niente, non la trovo una cosa ridicola. Per oggi ho pensato a un regalo diverso, è un po’ come una storia. Lo so che non è la stessa cosa, scusa.

Non avresti dovuto portarmi fin qui, lo sai? Per me è difficile. Comunque, mi fido. Cos’è questo regalo?

Innanzitutto devi fidarti di me. Camminiamo fino alla riva del lago, c’è una grossa pietra sulla quale possiamo sederci. Lì ci potremo togliere le scarpe e immergeremo i piedi nell’acqua. Vieni?

Accompagnami, avanti.

Ecco, ora che abbiamo i piedi nudi, al fresco del lago, cosa senti?

Lochan, io sento tantissime cose, dovresti saperlo. A volte è quasi fastidioso. Sento il frullare delle ali degli uccelli della foresta, il vociare del mercato dall’altra parte del lago, tu che ti gratti la testa e ti sbottoni la camicia, immagino per il caldo. Sento forte il profumo dei fiori e il tuo alito alcolico, e mi dà fastidio. E non ridere, non so come fai ancora a ridurti così.

Come si fa a non ridere? Sei un giovane vecchietto sempre scontento, sbuffi sempre. Il mio regalo per te è questo: ti racconto ciò che non puoi sapere. Cercherò le parole per la luce del sole sull’acqua, che non sta mai ferma e segue il vento: è come quando hai voglia di ballare, padre. Vorrei riuscire a parlarti della camicia che ti ha regalato mamma: ti sta benissimo, è come quando accarezzi il velluto, molto elegante. Mi piacerebbe farti sentire quanto è bella l’ombra della foresta nei suoi punti più fitti, dove ci sono infiniti colori: è come quando ci accorgiamo che hai sete e troppo orgoglio per chiederci da bere, perché ci siamo appena seduti e non vuoi essere un peso. E invece ci alziamo sempre. L’ombra della foresta è così: bellissima e quasi inaspettata. Sai che è lì, ma ogni tanto hai timore che possa non esserci.

E prego perché possa trovare per te, ogni giorno, le parole giuste per raccontarti la bellissima storia che è questo mondo, la mia storia preferita. È come l’odore della pioggia, quando cade sul mio giardino, padre. Fiori e lacrime nello stesso momento.

Sai cosa significa il tuo nome, immagino.

In realtà no.
Conosci troppo poco la tua lingua, Lochan.

Ecco, mi sembra il momento adatto per rimproverarmi. Devi aver apprezzato tantissimo il mio sforzo.

E sei anche uno sciocco. Il tuo regalo è bellissimo, e sto per farti un complimento. Il tuo nome vuol dire “Occhio”. L’ha scelto tua madre proprio qua, nella foresta, dove sei stato concepito. Eravamo ancora nudi, e lei aveva già scelto il tuo nome. Quando tornammo a casa mi disse: “Sarà un ottimo figlio, sento che ci rispetterà e, quando verrà il momento, si prenderà cura di noi. Sarà la vista che non hai ricevuto, il tuo occhio sul mondo. Vedrà il mondo che vorresti vedere, completerà ciò che lascerai incompiuto.” Non so come facciano, le madri, a sentirsi dentro certe cose, ma non si sbagliava. Grazie, Lochan.

Tu non puoi vedermi, ma sto piangendo. Questo era un colpo basso.

Tu non puoi vedermi: buona questa. Ho sentito tutti i tuoi pianti, ragazzino. Portami a casa, forza.

Sul sentiero di casa, chiese:
Un altro piccolo regalo.

Che sia piccolo e che non sia una storia.

È una cosa seria. Come ha gli occhi tua madre?

Verdi, padre.
Io li immagino profondi come una foresta.
Esatto, come una foresta.