D. fa colazione solo nei giorni importanti, tipo oggi. La sera prima dei grandi giorni, quindi ieri, imposta la sveglia – gesto dimenticato e inusuale. Ha uno specchio di fronte al letto: la prima faccia che vede, ogni mattina, è la sua. Forse oggi è il caso di radersi.
A casa di F. non si può dormire fino a tardi, mai. I suoi tre fratelli più piccoli, mentre si preparano per andare a scuola, fanno troppo chiasso. E per quanto le sue lezioni inizino alle nove, F. si sveglia sempre alle sei e mezza. Considerando i dieci minuti a piedi da casa alla facoltà, la levataccia forzata è una piccola tragedia.
Bisogna precisare cosa s’intende per colazione: aprire il frigo, stappare la bottiglia di tè freddo, berne due sorsi e divorare una merendina in due morsi. Di questo si tratta. E consumata in fretta, senza neppure indossare una maglietta. Così arrivi di fronte allo specchio già pronto: ti radi e sei a un paio di mutande dalla doccia. Bisogna economizzare il tempo.
Il profumo del caffè la mattina per molti è l’unica, vera sveglia. Non per F. Quindi maledice in silenzio la caffettiera, l’istruzione obbligatoria, l’euforia dei dodicenni e la luce del sole. Maledice senza voglia e senza accuse, per il gusto di sfogarsi. Poi si alza e cammina fino alla cucina. Durante il tragitto, nello specchio dell’andito, non può fare a meno di notare quanto lavoro dovrà fare sui suoi capelli. Ma questo dopo il cappuccino e i biscotti.
Nei giorni importanti, si ricordava della sua condizione di essere umano adulto di sesso maschile. E si vestiva quindi come gli uomini, con la cravatta, l’orologio e il dopobarba. Forse non tutte le mattine vedeva la stessa faccia, oggi è diversa. Riordina i fogli sulla scrivania e li ricontrolla, con addosso la sensazione di star interpretando un ruolo. Guarda il quadrante dell’orologio e sorride constatando di metterci dieci secondi buoni prima di capire che ora sia – la forza della non-abitudine. Dopo il sorriso, il panico: è decisamente troppo tardi.
Sei biscotti in due colonne da tre di fronte alla tazza rosa a pois bianchi regalata dalla nonna. Niente di più, niente di meno. La colazione è un rito. A conferire il giusto silenzio a cui ogni rito ambisce, i fratellini ormai fuori casa, destinazione scuolabus. Allora si può accendere lo stereo e scivolare verso il bagno, far scaldare l’acqua della doccia e canticchiare. Le mattine, in genere, si aggiustano da sole.
Una corsa fino alla fermata del treno manda via il dopobarba. L’orologio lo si mette in tasca – prima di entrare al colloquio lo indosso di nuovo. La cravatta va allentata. A parte questo, D. fa ancora la sua bella figura, dentro il completo blu e con la ventiquattrore in mano. E seduto sul sedile del treno è proprio un uomo, sembra stia andando a lavoro.
Le donne si prendono piccolissime soddisfazioni, ma con costanza: F. torna di fronte allo specchio dell’andito e riguarda con ammirazione i suoi capelli perfetti. Intanto si fanno le otto, è ora di scegliere i vestiti. In genere, si affaccia alla finestra e aspetta che dal fioraio sull’altro alto della strada esca un uomo con un mazzo di fiori in mano. Poi si veste del colore dei fiori. Le piaceva pensare: se quei fiori fossero per me, vorrei poterli riportare a casa abbinandoli al mio cappotto. Oggi, violetto.
Sentiva dentro di non essere in grado di abituarsi alle stazioni, mai nella vita. D. scende spaesato dal treno e ripassa mentalmente il modo migliore per presentare il suo curriculum. Sposta nervosamente la ventiquattrore da una mano all’altra e s’insinua nella folla che riempie le grandi strade della città. Cammina a testa bassa e velocemente. Non lo si nota più.
F. indossa gli occhiali da sole, il cappotto e gli auricolari. Spegne tutte le luci, lo stereo e le finestre. Prende le chiavi di casa, la borsa e la lista della spesa affissa accanto al portone – provvederà di ritorno dalla lezione. Infine si sfila le infradito e indossa le ballerine: è bello sentirsi incompleti per un pelo e completarsi in un attimo.
Per quanto si ricorda, deve svoltare verso destra e proseguire dritto. È una strada più stretta, ma comunque larga tre volte il corso del suo paese. Apprezza il profumo del glicine abbarbicato sulle villette a schiera e riesce a rallentare: c’è un po’ meno gente.
F. scende le scale saltellando, porta colore in mezzo al marmo del palazzo. Esce, solleva lo sguardo e lacrima leggermente per il sole. È una bella giornata.
Come capita a molti mentre si cammina in un posto nuovo, D. si guarda attorno, senza dare peso all’orario o a dove si mettono i piedi. Ci sono dei rischi, in questo.
Per esempio, si può andare addosso alle persone.
– Oh, scusami tanto, non ti avevo mica visto. Non sono di qui e mi sono perso guardandomi attorno. Davvero, non mi sono accorto.
Toglie gli auricolari: – No, no, scusami tu. Ho questo brutto vizio di stare con la testa fra le nuvole. Letteralmente, dico. Ora guardavo proprio il cielo, capisci? Sono una così, mi perdo sui dettagli, sulle bazzecole, amo i particolari. Sono particolare.
– Senti, magari puoi aiutarmi: cerco lo studio di un avvocato, ho il mio primo colloquio di lavoro. Dovrebbe essere qua vicino, nello stesso palazzo c’è un fioraio.
– Ti posso aiutare eccome, ma non ce ne sarebbe neppure bisogno. È proprio lì di fronte, non lo vedi? Devi solo attraversare.
– Oh, è vero, grazie. Scusami ancora per lo scontro di poco fa.
Sorride.
– Di nulla, e non c’è niente di cui ti debba scusare. Se vuoi un consiglio, però: ai colloqui di lavoro è bene presentarsi almeno con l’orologio al polso. Ti fa sembrare più ordinato.